Il (vero) mondo al contrario

Stralci dalla newsletter “Whatever it takes” del 20/05/2024, di Federico Fubini

Mercoledì 15 maggio l’Istat ha pubblicato il suo “Rapporto annuale 2024. La situazione del Paese”, documento sempre imparziale ed estremamente interessante. Si può scaricare anche la versione ‘in pillole’ liberamente accessibile. C’è un aspetto di questo racconto del Paese che fa pensare più di tutti: non tanto il fatto che l’Italia stia invecchiando rapidamente, ma che il mondo del lavoro stia invecchiando ancor più rapidamente dell’Italia stessa. L’età media degli occupati di uno dei Paesi a maggior declino demografico al mondo sale più di quanto salga l’età media nel complesso. Non solo in Italia ci sono sempre più persone in età avanzata, ma queste occupano sempre più posizioni professionali a un ritmo che va oltre il loro già rapido aumentare in generale fra gli abitanti del Paese. In sostanza l’Italia invecchia, ma il mondo del lavoro invecchia più di lei. E infatti, malgrado l’aumento dei posti di lavoro disponibili, i giovani emigrano dall’Italia in proporzioni persino maggiori a quelle degli anni neri della crisi finanziaria. Va di moda parlare di «mondo al contrario» di questi tempi, in certi ambienti. Ma se volete un caso di mondo davvero al contrario, eccolo qui. 

Gerontocrazia del lavoro nell’Italia che invecchia: i boomer nelle imprese, i giovani emigrano ancora

Scrive l’Istat: negli ultimi vent’anni «la forza lavoro risulta invecchiata più velocemente della popolazione: rispetto al 2004, la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni è diminuita più velocemente che nella popolazione (-11,5 punti rispetto a -6,3 punti). E l’opposto è avvenuto tra gli ultracinquantenni: più 16,6 contro più 5,3 punti per i 50-64 enni, e più 1,6 contro più 4,7 punti per i 65-89 anni». È quanto Istat illustra nel grafico che riporto qui sopra, riferito alle variazioni fra il 2004 e il 2023.

Da notare come in questo l’Italia sia un caso estremo fra le già gerontocratiche economie europee. Come riporta il grafico del Rapporto annuale Istat qui sotto, negli ultimi vent’anni la proporzione di giovani coinvolti nel mondo del lavoro è aumentata in Francia ed è rimasta stabile in Germania, mentre è diminuita in Spagna e ancora di più in Italia. E sempre l’Italia registra il maggior aumento relativo sul totale degli occupati dei cosiddetti (dai Millennials) «ok boomer». Cioè i miei coetanei o più. Vedete il grafico qui sotto, riferito alle percentuali di occupati sul totale nelle diverse fasce di età. 

In sostanza, invece di contrastarli o compensarli, le imprese italiane rispondono agli squilibri demografici accentuandoli. Negli ultimi due decenni in media si sono affidate sempre di più a dipendenti con molti decenni di esperienza e più vicini alla pensione. Intanto quel che è accaduto nel mondo del lavoro giovanile in Italia è una catastrofe. Gli occupati di meno di 35 anni erano 7,6 milioni nel 2004 e appena 5,3 milioni alla fine del 2023, secondo l’Istat. Naturalmente ciò dipende anche dal fatto che nel frattempo le persone di quelle età sono diminuite oltre due milioni e mezzo, proprio per l’invecchiamento della popolazione (oltre che per l’emigrazione dei giovani). Ma ecco il tasso di occupazione fino ai 34 anni:

* 2004: 54%
* 2015: 40,6%
* 2022: 45%

Questo mostra che non ci siamo mai del tutto ripresi dal collasso dell’occupazione giovanile iniziato attorno al 2007. E fin qui sono solo fatti: ma ora vanno messi in prospettiva. Perché a compensare questa catastrofe occupazionale dei giovani negli ultimi vent’anni dovrebbe esserci la (relativa) buona salute del mercato del lavoro di oggi.Sempre secondo l’Istat, dalla fine del 2020 l’Italia ha creato ben più di due milioni di nuovi posti e il tasso di occupazione viaggia a livelli che non si vedevano da decenni. Dalla fine del 2020 gli stessi occupati giovani sono cresciuti di seicentomila teste, un aumento mai visto, un esercito di giovani in più nel mondo del lavoro. Dunque pian piano tutto dovrebbe andare a posto, almeno in teoria.

Ma il fenomeno che mi dà più da pensare è un altro e riguarda l’emigrazione dall’Italia, un’altra dinamica giovanile divenuta di massa con la crisi finanziaria e i suoi postumi. Qui devo di nuovo confessare qualcosa, perché sono sensibile al tema: come giovane disoccupato della crisi finanziaria del remoto 1992, anch’io all’epoca emigrai in cerca di lavoro. Dunque da allora per me la fuoriuscita dei giovani è un termometro che dice tanto dello stato di un Paese. Infatti dopo la crisi finanziaria del 2008-2012 e dopo la glaciazione economica che ne è seguita, il fenomeno si è allargato e radicato in maniera endemica.

Cosa voglio dire? Provate a fare la proporzione (su dati Istat) fra la popolazione di 16-34 anni e il numero di quelli che cancellano la residenza in Italia e se vanno all’estero ogni anno. Nel 2002 il numero degli emigrati ufficiali era appena lo 0,23% del numero dei giovani residenti in Italia, poi quella proporzione è esplosa fino a essere lo 0,84% dei giovani nel 2015. (In realtà naturalmente si emigra anche dopo i 35 e gli emigrati reali sono molti più di quelli ufficiali, perché in tanti partono senza cancellare la residenza: ma prendiamo questi riferimenti di base per orientarci).

In teoria oggi tutto dovrebbe essere diverso rispetto agli anni della grande emigrazione. Negli ultimi anni l’Italia ha creato così tanti nuovi impieghi che a mancare sono i lavoratori, non i posti di lavoro. Chi cerca non ha mai troppa difficoltà a trovare. Infatti l’esercito nazionale dei giovani Neet (“not in education, employment or training”) proverbialmente chiusi nelle camerette delle case dei genitori è diminuito di quasi un milione di persone negli ultimi cinque anni. Non solo. Non è neanche vera la leggenda secondo cui che in Italia i giovani guadagnerebbero così tanto meno che nel resto d’Europa e sarebbero costretti a emigrare per un salario dignitoso. Non dubito che esistano molti casi del genere. Ma Eurostat ci dice che i salari medi dei giovani in Italia, se parametrati al costo della vita locale, sono poco sotto quelli di Francia e Germania e sopra quelli di Svezia e Finlandia. Con questa logica dovremmo vedere migliaia di giovani scandinavi immigrare verso l’Italia in cerca di un tenore di vita più alto, eppure non mi pare stia accadendo.

Quel che accade è che, malgrado tutto, i giovani italiani continuano ad emigrare in massa. Nel 2022 in quasi centomila hanno cancellato la residenza e se ne sono andati. In proporzione ai giovani che vivono nel Paese, sono più di quelli che se ne andavano durante e dopo la crisi finanziaria (sono lo 0,87% della popolazione in età da lavoro fino ai 34 anni nel 2022). Eppure un posto in Italia lo troverebbero e i compensi reali in media non sarebbero tanto peggio rispetto ai Paesi dove se ne vanno. Ma quelli continuano ad andare via, in massa e in particolare dalle provincie più dinamiche e a più alta occupazione.

Perché? Perché questo è l’altro lato della medaglia di un mercato del lavoro sempre più gerontocratico, di imprese sempre più sbilanciate sui boomer e affidate ad essi. Molti giovani semplicemente non si riconoscono nei modelli tradizionali d’impresa e nei percorsi che vedono possibili in Italia. Le gerarchie, gli orari e le modalità novecentesche non fanno per loro. Esistono eccezioni, certo. Ma sempre l’Istat ci dice che il livello di “soddisfazione per le opportunità di carriera” fra chi lavora in Italia è bassissimo – 31% in media – e probabilmente fra le nuove generazioni ancora di più.

(…)

Conosco tanti dirigenti dai capelli grigi con le stesse qualità. Ma nei grandi numeri del Paese dare il potere a chi ha pochi anni di carriera davanti a sé, in una stagione di cambiamenti così profondi, non funziona. Molti di questi boomer cercheranno solo di congelare la situazione e trascinarla in avanti per i pochi anni che li separano dalla pensione: senza un progetto di lungo respiro, ammesso che siano ancora in grado di capire il presente. Solo chi sa di avere davanti a sé decenni di lavoro in un dato mestiere – o una data impresa – tenderà ad affrontare il cambiamento in modo più progettuale. Perché ne va della sua vita. Solo chi pensa che il proprio futuro è in gioco prenderà l’innovazione come si prende il toro per le corna. Ma se non vede che qui c’è la possibilità di farlo, prende la porta di uscita dal Paese. E se ne va. 

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